E’ grazie a questa contestazione che apprendiamo i nomi di alcuni dei primi tagliapietra maddalenini conosciuti: Serra Giovanni Battista, Pittaluga Salvatore e Peraldi Pietro. Dopo questa prima commessa pare che l’interesse per il granito della Maddalena fosse venuto meno, tant’è che anche gli scalpellini citati avevano cambiato mestiere: Pittaluga era stato assunto al faro di Razzoli e Peraldi si era trasferito alla Spezia. Poi, improvvisamente, nel 1870, il risveglio con un interessamento da parte di un industriale elbano, certo Carlo Lovi che acquistava la zona a sud rispetto a quella di Bargone, attualmente occupata dalla batteria di Nido D’aquila. Si trattava di proprietà solo delle pietre non del terreno e la formula dell’atto notarile lo specifica chiaramente “tutte le roccie ossia granito che tengono e possiedono nel terreno posto in territorio dell’isola Maddalena nella regione detta Nido dell’Aquila e luogo detto i Cannoni”.
L’anno seguente la Banca di costruzioni di Genova prendeva in affitto tutta l’area posseduta da Bargone per impiantarvi una cava di grandi dimensioni e forte produttività. E’ questa la prima vera coltivazione del granito dell’arcipelago con peculiarità che si riproposero uguali per mezzo secolo e che meritano alcune riflessioni. La prima riguarda i maddalenini che non sembravano interessati allo sfruttamento di tipo industriale delle cave: mancavano lo spirito imprenditoriale e i capitali, ma forse, più semplicemente, la visione della evoluzione che impegnava le città del periodo post-unitario con le necessità di bonifica e sistemazione del sistema viario e di miglioramento dei servizi. Così i proprietari preferivano la rendita piccola ma certa dell’affitto a imprenditori esterni, limitandosi, tutt’al più, a partecipare all’impresa con ruoli secondari. La sola eccezione è rappresentata da Francesco Susini che, avendo capito l’importanza economica dell’attività di cava, aveva comprato i terreni a levante di quelli di Bargone in modo da allargare l’area che la Banca si proponeva di utilizzare e si era offerto a questa come collaboratore dell’impresa in qualità di agente in loco; qualche anno più tardi tentò di aprire una cava per suo conto a Punta Sardegna per la quale però non esistono tracce di commesse o di lavori eseguiti. La situazione descritta comportava una altalena fra periodi più o meno lunghi di attività, e quindi di assunzione di mano d’opera, e periodi di stasi completa.
Intorno al 1890 la zona fu affittata a Giorgio Bertlin, un ingegnere maltese di grandi capacità che seppe assicurare prosperità all’impresa con commesse di notevole entità. Per prima cosa Bertlin prese in affitto tutta l’area, sia quella che Bargone e Susini stavano tentando di esercire direttamente (con l’impiego massimo di 32 operai), sia quella gestita da uno scalpellino di buone capacità, Ireneo Ammannati, che si avvaleva di 50 addetti e che mantenne la responsabilità della organizzazione del lavoro: Bertlin si occupava dei rapporti esterni riuscendo a fornire pietra da costruzione per edifici, grossi conci per ponti e banchinamenti per Roma (continuando sulla via tracciata da Bonafè), ma anche a Napoli per la Società del Risanamento e a Taranto per il Genio Militare che ordinò la fornitura dei pezzi speciali per il bacino di carenaggio, i cosiddetti gargami costituenti la chiusura delle porte di accesso all’enorme invaso adibito alla costruzione e manutenzione delle navi.
Il primo periodo dell’avvio di questa impresa di proporzioni notevoli è il più significativo per capire i problemi di organizzazione e di gestione sia tecnica che del personale, in una località come Cala Francese, abbastanza inospitale, lontana da centri di approvvigionamento del materiale necessario per far funzionare l’impianto come da quelli di consegna dei pezzi finiti, priva di manodopera, ricca solo dell’ottima materia prima, il granito. (continua)
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