le cave di granito di Cala Francese

Verso il 1860 qualcuno fuori dall’isola scoprì la convenienza del granito della Maddalena per lastricare strade. L’impresa Serafino Lintas, Baingio Mura Multineddu e [?] Piu di Sassari conclusero un accordo con Giovanni Leonardo Bargone per estrarre materiale dalla zona di Nido D’Aquila: la qualità della pietra e la relativa facilità e rapidità di trasporto, che si effettuava via mare fino a Porto Torres, aveva fatto preferire il granito della Maddalena a quello di altre località tradizionalmente più attrezzate per questo tipo di fornitura e di lavorazione. Non sappiamo molto sulle quantità estratte e sul tempo dell’attività della cava. Sappiamo però che, terminato l’appalto, la zona rimase per qualche anno inutilizzata, tanto che lo stesso Bargone aveva consentito a cedere gratuitamente dei cantonetti di scarto per terminare i lavori di ristrutturazione del molo di Cala Gavetta, continuamente sottoposto a integrazioni o sostituzioni delle parti maggiormente danneggiate: ciò aveva provocato la denuncia da parte di un certo Serra che, avendo lavorato per la ditta di Sassari, si riteneva  proprietario della pietra tagliata rimasta nel cantiere abbandonato. 

la cava di granito di Cala Francese

E’ grazie a questa contestazione che apprendiamo i nomi di alcuni dei primi tagliapietra maddalenini conosciuti: Serra Giovanni Battista, Pittaluga Salvatore e Peraldi Pietro. Dopo questa prima commessa pare che l’interesse per il granito della Maddalena fosse venuto meno, tant’è che anche gli scalpellini citati avevano cambiato mestiere: Pittaluga era stato assunto al faro di Razzoli e Peraldi si era trasferito alla Spezia. Poi, improvvisamente, nel 1870, il risveglio con un interessamento da parte di un industriale elbano, certo Carlo Lovi che acquistava la zona a sud rispetto a quella di Bargone, attualmente occupata dalla batteria di Nido D’aquila. Si trattava di proprietà solo delle pietre non del terreno e la formula dell’atto notarile lo specifica chiaramente “tutte le roccie ossia granito che tengono e possiedono nel terreno posto in territorio dell’isola Maddalena nella regione detta Nido dell’Aquila e luogo detto i Cannoni”. 

L’anno seguente la Banca di costruzioni di Genova prendeva in affitto tutta l’area posseduta da Bargone per impiantarvi una cava di grandi dimensioni e forte produttività. E’ questa la prima vera coltivazione del granito dell’arcipelago con peculiarità che si riproposero uguali per mezzo secolo e che meritano alcune riflessioni. La prima riguarda i maddalenini che non sembravano interessati allo sfruttamento di tipo industriale delle cave: mancavano lo spirito imprenditoriale e i capitali, ma forse, più semplicemente, la visione della evoluzione che impegnava le città del periodo post-unitario con le necessità di bonifica e sistemazione del sistema viario e di miglioramento dei servizi. Così i proprietari preferivano la rendita piccola ma certa dell’affitto a imprenditori esterni, limitandosi, tutt’al più, a partecipare all’impresa con ruoli secondari. La sola eccezione è rappresentata da Francesco Susini che, avendo capito l’importanza economica dell’attività di cava, aveva comprato i terreni a levante di quelli di Bargone in modo da allargare l’area che la Banca si proponeva di utilizzare e si era offerto a questa come collaboratore dell’impresa in qualità di agente in loco; qualche anno più tardi tentò di aprire una cava per suo conto a Punta Sardegna per la quale però non esistono tracce di commesse o di lavori eseguiti. La situazione descritta comportava una altalena fra periodi più o meno lunghi di attività, e quindi di assunzione di mano d’opera, e periodi di stasi completa.

La Banca di costruzioni doveva avere progetti a lunga scadenza determinati dalle richieste di pietra da costruzione e, soprattutto, di lastre per pavimentazioni, provenienti dal comune di Genova, perché impiantò nell’area strutture fisse quali caseggiati da destinare ad ospitare gli operai e ad accogliere uffici e alloggi per il personale della direzione. Un ingegnere, Quarleri, dirigeva i lavori e, come abbiamo detto, Susini curava gli interessi della banca. La banca mantenne la cava per circa quindici anni con periodi di lavorazione e attività intensi alternati a periodi morti fino a che, a causa di difficoltà interne, dovette, probabilmente intorno al 1885, abbandonare l’impresa restituendo il terreno ai proprietari. Ma ormai il nostro granito si era affermato: al sindaco arrivavano continuamente richieste di informazioni di imprenditori esterni che si sarebbero volentieri accordati con i locali, se questi avessero garantito una base operativa, un minimo di strutture e di lavoratori in loco: una rete completamente assente che, di volta in volta, bisognava creare daccapo con comprensibili aggravi.

Intorno al 1890 la zona fu affittata a Giorgio Bertlin, un ingegnere maltese di grandi capacità che seppe assicurare prosperità all’impresa con commesse di notevole entità. Per prima cosa Bertlin prese in affitto tutta l’area, sia quella che Bargone e Susini stavano tentando di esercire direttamente (con l’impiego massimo di 32 operai), sia quella gestita da uno scalpellino di buone capacità, Ireneo Ammannati, che si avvaleva di 50 addetti e che mantenne la responsabilità della organizzazione del lavoro: Bertlin si occupava dei rapporti esterni riuscendo a fornire pietra da costruzione per edifici, grossi conci per ponti e banchinamenti per Roma (continuando sulla via tracciata da Bonafè), ma anche a Napoli per la Società del Risanamento e a Taranto per il Genio Militare che ordinò la fornitura dei pezzi speciali per il bacino di carenaggio, i cosiddetti gargami costituenti la chiusura delle porte di accesso all’enorme invaso adibito alla costruzione e manutenzione delle navi.

Il 1898 segna una svolta notevole: il primo maggio tutto il terreno della cava veniva preso in affitto da una società genovese di costruzioni, Fratelli Marcenaro e Grondona. Come siano arrivati qua non è certo: il sig. Pinetto Grondona disse che la società vantava un cospicuo credito nei confronti della Banca di Costruzioni di Genova e, data la traballante situazione dell’istituto, per non perdere le somme dovutele, aveva accettato di subentrare nelle attività della cava della Maddalena. Ma questa versione contrasta con quanto affermato nell’opuscolo edito dalla Società Esportazione Graniti Sardi (SEGIS) nel 1919 in cui si dice che terreno e fabbricati erano stati restituiti ai proprietari prima dell’arrivo di Bertlin e quindi non erano più nella disponibilità della banca. 
Il 29 maggio 1901 il consiglio comunale di Genova approvava la proposta di sostituire, nelle nuove pavimentazioni della città, l’arenaria con il granito di Cala Francese; il 27 luglio la società acquistava i terreni da Bargone e Susini; il 31 dello stesso mese nasceva la nuova Società Esportazione Graniti Sardi (SEGIS) con capitale di lire centomila; il 13 giugno 1902 si formalizzava l’apertura dell’esercizio di cava a nome della nuova società dinanzi al sindaco. Ai vecchi soci della Fratelli Marcenaro (Osvaldo, Plinio e Edoardo) e Grondona (Attilio) che rimase attiva e operante nel campo delle costruzioni si aggiunsero Agusti Elia, Malerba Emanuele (cognato di Attilio), Denegri Carlo, Rosi Emilio, tutti con lo stesso capitale iniziale, anche se solo sei avevano voto deliberativo per affari importanti. L’amministrazione pratica delle attività produttive era affidata ai tre soci gerenti Osvaldo Marcenaro, Grondona, Rosi (supplente Agusti), la direzione dei lavori a Carlo Denegri, la sorveglianza sul terreno a Abbondio Gattoni, Amedeo Ammannati e Carlo Zanat.

Il primo periodo dell’avvio di questa impresa di proporzioni notevoli è il più significativo per capire i problemi di organizzazione e di gestione sia tecnica che del personale, in una località come Cala Francese, abbastanza inospitale, lontana da centri di approvvigionamento del materiale necessario per far funzionare l’impianto come da quelli di consegna dei pezzi finiti, priva di manodopera, ricca solo dell’ottima materia prima, il granito.   (continua)


TESTO ESTRATTO, IN PARTE, DALLA PUBBLICAZIONE "A MIMORIA D'A PETRA" di Giovanna Sotgiu - Parco Nazionale, Associazione Giovanni Cesaraccio